La riunione del G20 del 2 aprile 2009 ha dato un altro giro di chiave con la pubblicazione di una lista nera e di una grigia dei paradisi fiscali, anche se quella ufficiale dovrà essere stilata e pubblicata in breve dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE).
In pratica, però pare che questa lista interessi solamente il sistema bancario, infatti, non sapendo bene a chi dare la colpa della crisi finanziaria mondiale, è stata dichiarata guerra al “segreto bancario”.
I paradisi fiscali sono da sempre una croce ed una delizia dell’economia mondiale; secondo alcuni sono il lato oscuro della finanza internazionale, ma una necessità del sistema economico. Sono infatti utilizzati oltre che da migliaia di contribuenti, principalmente, dalle grandi imprese, spesso anche quelle a partecipazione statale o controllate dagli stati. Nell’Unione Europea si stima che la frode fiscale tocca una media del 2.5 % del Pil. In fondo fino a oggi, i paradisi fiscali sono stati dei pilastri essenziali della globalizzazione economica, con un’incidenza considerevole nel sistema finanziario. Tenendo conto del ruolo fondamentale di questi paesi nel meccanismo della globalizzazione, l’eliminazione provocherebbe delle grandi disfunzioni economiche e finanziarie.
Forse anche quest’ultima crociata iniziata dal G20 non è altro che uno strumento per dissuadere i “piccoli”, ossia quei contribuenti che grazie all’internet e al calo dei prezzi dei servizi offshore, hanno avuto recentemente accesso a questo mondo che fino allo scorso decennio era prerogativa dei grandi capitali. In tempi di crisi però bisogna andare con i piedi di piombo e una eventuale soppressione dei paradisi fiscali rischierebbe di provocare un collasso finanziario internazionale. In epoca di recessione, quale Stato se lo può permettere?
E’ noto infatti che vi sono in questi paradisi decine di società controllate o partecipate da Eni e Enel nel Delaware, alle Bahamas, alle Isole Cayman, in Lussemburgo e in molti altri paesi. Senza poi parlare delle regioni o aree a statuto speciale che in molti paesi dei G20 godono di defiscalizzazione. I capitali cercheranno sempre le piazze più redditizie e i sistemi tributari più favorevoli. Questa è la logica del capitalismo e la globalizzazione la favorisce.
Questa battaglia contro i paradisi fiscali è appena iniziata e probabilmente otterrà uno dei risultati voluti: l’aumento dei costi dei servizi offshore e la riduzione all’accessibilità degli stessi. In pratica chi paga è sempre il piccolo.
In pratica, però pare che questa lista interessi solamente il sistema bancario, infatti, non sapendo bene a chi dare la colpa della crisi finanziaria mondiale, è stata dichiarata guerra al “segreto bancario”.
I paradisi fiscali sono da sempre una croce ed una delizia dell’economia mondiale; secondo alcuni sono il lato oscuro della finanza internazionale, ma una necessità del sistema economico. Sono infatti utilizzati oltre che da migliaia di contribuenti, principalmente, dalle grandi imprese, spesso anche quelle a partecipazione statale o controllate dagli stati. Nell’Unione Europea si stima che la frode fiscale tocca una media del 2.5 % del Pil. In fondo fino a oggi, i paradisi fiscali sono stati dei pilastri essenziali della globalizzazione economica, con un’incidenza considerevole nel sistema finanziario. Tenendo conto del ruolo fondamentale di questi paesi nel meccanismo della globalizzazione, l’eliminazione provocherebbe delle grandi disfunzioni economiche e finanziarie.
Forse anche quest’ultima crociata iniziata dal G20 non è altro che uno strumento per dissuadere i “piccoli”, ossia quei contribuenti che grazie all’internet e al calo dei prezzi dei servizi offshore, hanno avuto recentemente accesso a questo mondo che fino allo scorso decennio era prerogativa dei grandi capitali. In tempi di crisi però bisogna andare con i piedi di piombo e una eventuale soppressione dei paradisi fiscali rischierebbe di provocare un collasso finanziario internazionale. In epoca di recessione, quale Stato se lo può permettere?
E’ noto infatti che vi sono in questi paradisi decine di società controllate o partecipate da Eni e Enel nel Delaware, alle Bahamas, alle Isole Cayman, in Lussemburgo e in molti altri paesi. Senza poi parlare delle regioni o aree a statuto speciale che in molti paesi dei G20 godono di defiscalizzazione. I capitali cercheranno sempre le piazze più redditizie e i sistemi tributari più favorevoli. Questa è la logica del capitalismo e la globalizzazione la favorisce.
Questa battaglia contro i paradisi fiscali è appena iniziata e probabilmente otterrà uno dei risultati voluti: l’aumento dei costi dei servizi offshore e la riduzione all’accessibilità degli stessi. In pratica chi paga è sempre il piccolo.
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